sabato 17 aprile 2010

Quella "differenza" non solo politica

Ci sono parole magari in disuso, che però hanno ancora tanto senso

di Filippo Rossi - Non sappiamo come andrà a finire lo scontro politico tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. E sinceramente poco ce ne importa. Poco ce ne importa perché, comunque vada a finire, sia che nascano i gruppi parlamentari di Pdl-Italia sia che il premier sappia rispondere alle questioni politiche poste dal presidente della Camera, il dado comunque è tratto. Al di là dei resoconti dei quotidiani, infatti, ieri non è andato in onda un ennesimo battibecco politico degno di una puntata di Porta a Porta o Anno Zero: quella è solo l’apparenza, descritta alla perfezione dai cronisti parlamentari. No, oltre alle discussioni – importantissime, intendiamoci – su strategia e tattica, su democrazia interna, sullo strapotere della Lega, su coordinatori, vice coordinatori, poltrone e strapuntini, sui numeri della politica, insomma, c’è dell’altro, c’è molto altro. C’è qualcosa, forse d’impalpabile, che, però, alla fine dei conti fa davvero la differenza, qualcosa che può spiegare quello che sta succedendo meglio di retroscena legati indissolubilmente alla cronaca di queste ore. Questo qualcosa ha a che vedere con parole magari un po’ in disuso, magari un po’ fuori moda che, però, hanno – ne siamo convinti – ancora un senso per la maggioranza assoluta degli italiani. Le buttiamo là alla rinfusa proprio per la loro importantissima impalpabilità. Parole come decoro, come serietà, come integrità, come legalità. Parole come sobrietà. Come stile. E come moderazione. Parole come dialogo e come pacatezza. Parole come altruismo e condivisione. Parole come libertà. E come dignità. E come responsabilità. Parole come partecipazione. E come cultura. Parole, anche, come patria. Parole come Italia. E come rispetto. E parole come democrazia. Come umanità. Come bellezza. Come doveri. E come diritti. Come onestà. E come laicità. E come accoglienza. Come comunità. Come integrazione. Parole come futuro. Come fatica. Come lavoro. Come amore. Come speranza e come prospettiva. Parole come utilità. E come felicità. Sono tante e altrettante potrebbero essere. Parole impalpabili che, però, segnano una differenza culturale prima che politica. Una differenza tra due modi di pensare la politica. Di agire in politica. Una differenza tra chi, almeno così sembra, considera il potere una cosa privata, fine a se stessa, senza ideali, senza contenuti, senza obiettivi, e chi lo considera al servizio dei cittadini, al servizio del paese. Una differenza tra chi cerca di dare un senso a quelle parole e chi, invece, le utilizza solo come vuota retorica. Ecco, forse è questa la differenza più importante: dare o no un senso alle parole, considerarle o no scatole da riempire con quello che più fa comodo. Il pericolo del relativismo è tutto qui: non dare significato a quello che un significato ce l’ha eccome; urlare slogan senza dargli né un corpo né un’anima.

Senza capire questa differenza, nessuno può comprendere quello che sta succedendo in questi giorni, in queste ore. Senza capire questa alterità, quel che sta succedendo può apparire solo un gioco politico, un gioco di potere. Ma non è così: c’è dell’altro. Molto altro. E tantissimi italiani, a destra come a sinistra, l’hanno capito.

Dall'appiattimento ci rimette tutto il Pdl

Il partito più grande del dopoguerra non può non essere plurale


di Filippo Facci - Ci fosse un cane che, invece di fare la mera conta dei deputati e dei senatori, avesse anche voglia di discutere se le ragioni addotte al divorzio Fini-Berlusconi abbiano o no qualche fondamento, qualcuno che voglia discutere la ripartizione dei torti e delle ragioni non soltanto sulla base dei rapporti di forza. A me, per esempio, non importa nulla del divorzio in sé, m’importa che probabilmente andrà a catafascio anche il banalissimo assunto secondo il quale il partito più grande del dopoguerra dovrebbe avere delle pluralità al proprio interno, quelle identità che corrispondono alle mille sfumature della società e la cui sintesi, un tempo, era il motore della politica. Detto in termini medici: Fini potrebbe aver torto nella terapia, e magari andarsi presto a schiantare: ma la sua diagnosi è proprio tutta sbagliata? Sicuri che i problemi da lui posti siano soltanto dei pretesti per reclamare fette più generose di potere?

È in tal senso che si può, secondo me, essere “finiani senza Fini”, e guardare con simpatia al sommovimento che aveva creato: anche se non si aveva nulla a che spartire col suo retroterra culturale, col suo passato, con le sue metamorfosi. L’amplissimo centrodestra italiano, del resto, non è diviso solo tra berlusconiani e finiani, non porta soltanto i mocassini e le giacche berlusconiane in alternativa al maledetto “cachemire” che si tende a immaginare su chiunque appaia diverso dall’archetipo che ci piace.

Io non so se Fini corrisponda a un socialismo tricolore, a una destra europea o dei diritti o delle istituzioni; so che qualcosa però si muoveva, mentre dall’altra parte c’è Berlusconi e basta. C’è lui, che non è poco, ma oltre a lui ci sono solo i suoi yesman, i suoi oligarchi eletti con voti di lista, il Porcellum, la selezione per casting, i pigia-bottoni del Parlamento, e tanta, troppa gente euforizzata dal potere e disposta perciò a sostenere ogni cosa e pronta a obiettare che «il popolo lo vuole», anche se magari non è vero, lo vuole Tizio, lo vuole Caio, lo vuole la Lega, lo vuole il Vaticano. C’è Berlusconi e sempre sia lodato, ma, a strascico, c’è anche un partito con organismi fittizi, un ufficio di presidenza pressoché inesistente, una direzione nazionale mai convocata, nessuna discussione che faccia da base all’intuizione fulminea del leader. C’è un ex movimento liberale di massa che ha ceduto il posto a una linea clericale – per fare l’esempio più facile – la quale però non è mai stata deliberata, discussa, ufficialmente decisa. C’è una truppa in panico da ricollocazione che liquida con arroganza ogni dubbio vedendolo come debolezza, gente che in mancanza d’altro ha nella fedeltà a Berlusconi la sola stella polare. Quindici anni di elaborazione del centrodestra, nato con Berlusconi, hanno dato questo: Berlusconi. L’assioma contiene tutti i pregi e i difetti del caso.

Ma, ripeto, il centrodestra non è diviso soltanto tra finiani e berlusconiani: ce n’è anche una parte – ampia, laica anche quando cattolica – che è sempre stata al posto giusto e non ha neppure avuto bisogno di innovarsi, questo mentre altri, a destra e a sinistra, annegavano nella rispettiva brodaglia ideologica. È gente che votava il pentapartito e oggi vota Pdl, non c’è dubbio: ma la loro, in mancanza d’altro, dopo 15 anni, resta una delega rilasciata pressoché in bianco. La sera, in televisione, vedono Sandro Bondi o Maurizio Gasparri e si chiedono se li rappresenti: non per antipatia, ma perché non ne possono più del ring e dell’eterno referendum su Berlusconi. Forse, chissà: tra loro ci sono anche i tanti o tantissimi che alle regionali non sono andati a votare.

Molti berlusconiani non pensano che ci sia un universo a nome del quale Gianfranco Fini ha costruito un potere: pensano che ci sia un’aspirazione di potere dietro la quale Fini ha costruito un finto universo. E tutto può essere, la decrittazione immaginifica dei finiani – fatta perlopiù da sinistra – non mi entusiasma: ma i finiani esistono, come tanti altri, ed esistono a fronte di un Pdl che doveva o poteva essere, date le sue dimensioni, come un crogiolo: ma che nei fatti, come si è visto, non fonde, bensì scarta, seleziona, esclude a seconda delle stagioni. In questa stagione il Pdl sta appaltando la propria identità a chi ha il merito di averne una: una Lega. È la cosa migliore? Può darsi anche questo. Ma domani?

In attesa di saperlo, il Pdl è un partito plebiscitario con venature populiste. Lo è perché lo si vuole così. Non ha un progetto per cui chiede voti, ma chiede voti per elaborare un progetto. Meno male che Silvio c’è. Meno male che Tremonti c’è. Eccetera. Questo non piace a tutti, e Fini su questo sfondo è divenuto il reagente di tutte le contraddizioni, lo sfiatatoio di apnee che forse duravano da troppo tempo. A molti interessa solo fare la conta, a me interessa che l’ennesima identità, quale che sia, andrà probabilmente annacquata. È davvero un peccato.

17 aprile 2010

Pubblicato su Libero di oggi

giovedì 15 aprile 2010

MEMENTO

IL ROGO
Arrivarono in tre la notte del 16 aprile 1973, avevano una tanica di benzina. Arrivarono alle case popolari di Primavalle, un appartamento del terzo piano, era la casa di Mario Mattei, esponente romano del MSI. Versarono la tanica e appiccarono il fuoco, in quella casa viveva una famiglia “fascista”, e in quanto tale, doveva morire. L’incendio divampò e distrusse rapidamente tutto l’appartamento. Annamaria, moglie di Mattei, riuscì a portare in salvo i due figli più piccoli Antonella di 9 anni e Giampaolo, di 3 anni, gettadosi giù. Lucia, di 15 anni, aiutata dal padre Mario si calò nel balconcino del secondo piano e da li si buttò sotto salvandosi assieme al padre. Silvia, 19 anni, si gettò dalla veranda della cucina e riportò incredibilmente solo qualche frattura.

Due dei figli non riuscirono a salvarsi. Virgilio, 22 anni, e il fratellino Stefano, 10 anni, morirono arsi vivi nel balcone di fronte alla folla che si era radunata sotto l’appartamento e assisteva impotente al lento spegnersi di Virgilio che sino all’ultimo tentava di proteggere con il suo corpo il fratellino più piccolo. Stefano si spense poco dopo, accasciandosi dopo che il fratello maggiore, che lo teneva stretto a se, perse le ultime forze.

LE INDAGINI
Le indagini seguirono piste che portarono ai movimenti extraparlamentari di sinistra, concentrandosi su esponenti di “Potere Operaio”. Il 18 aprile fu arrestato Achille Lollo come presunto responsabile. In seguito furono in tre ad essere rinviati a giudizio: Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo.
Il processo di primo grado iniziò il 24 febbraio 1975, a quasi due anni dal rogo. Inizialmente l'accusa ipotizzata fu di strage e la pubblica accusa richiese la pena dell'ergastolo. Si concluse con l'assoluzione per insufficienza di prove degli imputati dalle accuse di incendio doloso e omicidio colposo. In secondo grado, Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo, furono condannati a 18 anni di carcere per, ma per omicidio preterintenzionale e non per strage.
Achille Lollo, rilasciato in attesa di processo d'appello, fuggì in Brasile. Manlio Grillo si rifugiò invece in Nicaragua grazie alla complicità, di cui aveva goduto anche il Lollo, di Oreste Scalzone. Marino Clavo tuttora non risulta rintracciabile. La pena è stata dichiarata estinta dalla Corte di Appello di Roma per intervenuta prescrizione, su istanza dell’avvocato Francesco Romeo, difensore di Marino Clavo.

Nel 2005 ci sono state varie interviste che hanno portato a una riapertura dei fascicoli.
• il 10 febbraio il "Corriere della Sera" pubblicò un'intervista ad Achille Lollo in cui questi ammise la colpevolezza propria e degli altri due condannati insieme a lui, aggiungendo molti particolari.
Il maggior elemento di novità fu l'affermazione che a partecipare all'attentato furono in sei, i tre condannati più altri tre di cui Lollo fece i nomi: Paolo Gaeta, Diana Perrone e Elisabetta Lecco. Inoltre ammise di aver ricevuto aiuti dall'organizzazione per fuggire. Lollo tuttora vive in Brasile dove si è dichiarato rifugiato politico (status non riconosciuto dalle autorità locali).
• il 12 febbraio Oreste Scalzone, a quel tempo dirigente di Potere Operaio, rilasciò sul caso una intervista a RaiNews24 in cui dichiarò di aver aiutato due colpevoli a fuggire.
• il 13 febbraio Franco Piperno, all'epoca dei fatti Segretario nazionale di Potere Operaio, in una intervista su la Repubblica confermò anch'egli che il vertice di Potere Operaio fu informato di tutto, seppur solo dopo i l'avvenimento dei fatti.
• Il 17 febbraio anche Manlio Grillo ammise per la prima volta in una intervista pubblicata su La Repubblica, nelle modalità indicate nella sentenza di condanna, senza modifiche, la propria responsabilità. Ammise anche aiuti dall'organizzazione per fuggire.
Nell'ottobre del 2006 affermerà che la cellula terrorista di cui faceva parte era legata alle Brigate Rosse.
• Lanfranco Pace, a quel tempo dirigente di Potere Operaio a Roma, ha risposto anch'egli a domande in una intervista.

Tutti gli organizzatori, esecutori e comprimari della strage finora identificati sono a piede libero e taluni svolgono compiti di rilievo nell'informazione pubblica e della pubblicistica (Pace, Morucci, Piperno, Scalzone, Grillo); altri sono tuttora latitanti all'estero (Lollo); altri non sono rintracciabili (Clavo).
Stefano e Virgilio Mattei attendono ancora che venga fatta giustizia.



E Raimondo Vianello difese i giovani di Salò

MILANO - "Non rinnego ne' Salo', ne' Sanremo". Questo il titolo di un'intervista a Raimondo Vianello sul settimanale "Lo Stato" (oggi in edicola) diretto da Marcello Veneziani. Lo show - man parla del Festival di Sanremo, di televisione. Poi la domanda politica: "Che ne pensa del revisionismo storico di Fini sulla Repubblica di Salo' alla quale lei aderi'?". Replica Vianello: "I giovani che sono andati a Salo' erano spinti dall'idea di non abbandonare la battaglia. Anche se destinati a perdere, gia' la consapevolezza della sconfitta conferisce un forte dolore a quegli ideali. Per cui condannare in toto questo capitolo storico non mi sembra giusto. Si puo' dire che il fascismo e' stato un regime dittatoriale anche perche' imborghesendosi ha tradito le sue origini socialiste, mentre a Salo' si tento' di dare nuove norme sociali partendo gia' dal nome Repubblica sociale. Quei giovani dovrebbero essere piu' rispettati se non altro per i loro ideali ispiratori. Morti ce ne sono stati da tutte e due le parti, ma chi e' andato su, sapeva di finire male. Non va abiurato". Una parte di questa dichiarazione e' stata, ieri, anticipata dalle agenzie. E Vianello si stupisce. Al Corriere commenta: "Non mi pare di aver dichiarato nulla di sconvolgente. Ho voluto solo dire che molti giovani sono andati a Salo' in buona fede, solo per tener fede alla parola. Non per vincere la guerra, ma perche' avevano degli ideali. Per questo vanno rispettati. Cio' che invece va rinnegata e' l'esperienza di regime, la dittatura". "Del resto - conclude Vianello - perfino il Presidente della Camera Violante ha lanciato un messaggio di apertura e distensione verso la questione Salo'. Disse proprio: "Nella lacerazione fascismo - antifascismo deve restare l'identita' degli uni e degli altri, pero' gli eredi di entrambi devono avere oggi un atteggiamento reciproco molto rispettoso. Non bisogna usare la memoria vendicativa come arma contro i nemici di ieri o i loro eredi di oggi".

14 aprile 2004 - 14 aprile 2010



"Vi faccio vedere come muore un italiano" -
Per non dimenticare Fabrizio Quattrocchi






A-DIO GRANDE UOMO E GRANDE PAPA


Cerca nel blog

"L'avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista...può dunque, e deve, osare temerariamente!"